Un lavoro che renda autonomi economicamente ma che non richieda troppa responsabilità, non provochi stress e, soprattutto, lasci spazi liberi per fare altro, al di fuori dell’attività professionale. È la sintesi del profilo dei giovani lavoratori inglesi rilanciata da Bloomberg.
Rispetto alla generazione precedente, tutta votata alla ricerca di un’affermazione nel lavoro in un contesto competitivo e di affermazione individuale, la Generazione Z, ossia i giovani della fascia 18-24 anni, come riferisce la ricerca di Legacoop e Ipsos (Report FragilItalia), preferisce uno stipendio con una base fissa e una componente variabile legata ai risultati raggiunti. Un altro modo per dimostrare che questa generazione attribuisce più valore alla flessibilità di orario e alla disponibilità di tempo libero.
Sempre Bloomberg, riporta che la piattaforma di ricerca di lavoro Adzuna ha registrato un aumento dei clic sui post per posizioni come amministratori di ufficio, account manager e addetti al marketing, lavori che generalmente sono associati a maggiore flessibilità e meno stress.
La ricerca di lavori meno stressanti è quindi indice di una tendenza molto ampia definita “quiet quitting”: lavorare il giusto per mantenere il posto di lavoro, rifiutarsi di fare straordinari o di assumersi responsabilità che non rientrano strettamente nell’orario di lavoro e nelle mansioni indicate sul contratto.
Lo studio sulla questione “under 30”: «Addio al mito del lavoro fisso, ora questo deve conciliarsi con altro»
MATTEO MARIAN - tribunatreviso.gelocal.it/ - 09 Settembre 2023
Da una parte le dimissioni, dall’altra la fuga all’estero. «Non c’è più il mito del lavoro fisso: se arriva bene, ma deve essere proprio quello che si brama e deve conciliarsi con altro. I giovani non hanno paura di dimettersi e di cambiare lavoro, anzi lo fanno frequentemente».
Nelle parole di Roberto Toigo, segretario generale Uil Veneto, il filo rosso che ieri ha animato l’assemblea regionale del sindacato. La tesi, con numeri a supporto, apre uno scenario utile a leggere le dinamiche del mercato del lavoro veneto.
«Una volta la frase di rito, dopo un colloquio di lavoro, era “Le faremo sapere”. Oggi la frase ricorrente proviene dal candidato all’impiego: “Vi farò sapere”. Il lavoratore, a differenza di qualche anno fa, si fa meno problemi a dire anche un “no”».
Un cambio di atteggiamento che, magari, non spiega in toto le dinamiche che caratterizzano il mercato del lavoro veneto under 30 ma di cui sicuramente tenere conto per spiegare in parte quegli oltre 28mila posti che le aziende non riescono a coprire. «Un atteggiamento, quello dei giovani» ha proseguito Toigo «che non dev’essere letto per forza in maniera negativa. Va invece approfondito in maniera adeguata».
La fuga all’estero – secondo lo studio presentato ieri da Luca Romano, direttore Lan Network – rappresenta proprio una faccia di questa nuova medaglia. «I giovani non temono di fare esperienze lavorative all’estero. E chi pensa riguardi solamente chi vuole prendersi un anno sabbatico lavorando in un bar o in un negozio, sbaglia di grosso» la chiosa del segretario regionale Uil.
Nel biennio successivo al Covid, tra chi emigra dei giovani veneti è in aumento la quota di laureati: 5.000, quasi uno su due, vicini al picco del 2019. Se ne sono andati in cerca di stipendi migliori e maggior sicurezza. «Fenomeni che dobbiamo comprendere e accompagnare, di cui discutiamo con le istituzioni e con le parti datoriali, perché a monte c’è la necessità di avere un’idea del futuro di questa regione».
A supporto del mutato approccio al mondo del lavoro anche il dato delle dimissioni volontarie. «Su questo c’è un grande dibattito – ha detto Romano –. Nel 2022 in Veneto ne abbiamo avute 232.365 con un aumento del 17% sull’anno precedente. Siamo di fronte a una tendenza alla crescita? Non lo possiamo ancora dire.
Nel primo trimestre 2023 le dimissioni calano rispetto allo stesso periodo del 2022 del 5,2%, quindi serve cautela. I settori più interessati sono industria, turismo, logistica e i servizi alla persona. Tra i profili interessati emergono gli under trenta e i laureati».
Il mondo del lavoro – ha concluso Luca Pezzullo, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto – «sta attraversando una trasformazione rilevante, in relazione alle aspettative e investimenti identitari delle giovani generazioni: mentre per le generazioni precedenti il proprio ruolo lavorativo era il motore fondativo dell’identità personale, tale da richiedere e spingere a fare investimenti esistenziali di lungo termine, negli ultimi anni i giovani e i giovanissimi sembrano più considerarlo solo uno degli elementi accessori del proprio mosaico identitario».
Consideriamo il mare come un supermercato dove prendere quello che ci serve, come se gli scaffali si riempissero da soli. Ma non è così e ce ne stiamo accorgendo
Per un fotografo subacqueo, il granchio blu è una modella perfetta, perché ha grandi chele colorate, è lenta, poco paurosa e quindi facile da fotografare. Per uno chef è polpa saporita che non richiede grandi sforzi rendere appetitosa oltre a essere un piatto che costa poco. Per un allevatore di vongole invece è un incubo perche’ con le sue pinze potenti il granchio blu gli divora le vongole e gli mangia patrimonio e attività.
Insomma, il giudizio sul granchio blu dipende da chi lo emette. Ma i giudizi sono così: per noi, gli orientali sono gli asiatici, per gli asiatici gli orientali sono i californiani. Tutto è relativo.
Il granchio blu non è arrivato dalle coste degli Stati Uniti passeggiando, ce lo abbiamo portato noi, dandogli “un passaggio involontario” nelle zavorre piene di acqua delle navi. E siccome “il tipetto” si adatta facilmente, in qualche decennio ha invaso il Mediterraneo. Ma questo non lo abbiamo scoperto in queste settimane, lo sappiamo da anni. Quando però il problema ecologico diventa problema economico, tutti ne parlano: i media si interessano al problema e i politici invocano lo stato di calamità. È un classico.
Eppure la natura non fa sorprese, è solo l’insieme di chimica, fisica e biologia. In genere le specie convivono in equilibrio tra prede e predatori. In Atlantico, dove viveva il granchio blu, c’era sempre l’animale che lo mangiava. Talvolta allo stato larvale, talvolta allo stato adulto. Tartarughe, pesci, polpi e uccelli sono ghiotti di granchi blu. Ma noi abbiamo fatto fuori i suoi predatori uno dietro l’altro e ora ci lamentiamo.
Le tartarughe non hanno piu’ abbastanza spiagge per deporre le loro uova e ce ne sono rimaste così poche che quando se ne trova una presa a un amo, la Guardia Costiera la salva con dispendio di uomini e mezzi (e fa bene), dimenticando che stiamo parlando pur sempre di un rettile, anche se simpatico.
Di pesci e crostacei nel Mediterraneo ne peschiamo così tanti che due terzi di quelli che mangiamo siamo costretti a importarli dall’estero: le cozze dal Cile, i calamari dall’Argentina, i naselli dal Senegal, il pangasio dal Vietnam, i merluzzi dall'Alaska. I fondali di casa nostra li abbiamo ripuliti senza accorgercene, d’altronde, dopo che un peschereccio è passato il mare sembra lo stesso di prima.
Consideriamo il mare come un supermercato dove prendere quello che ci serve, come se gli scaffali si riempissero da soli. Quando avremo ripulito anche i fondali di altre nazioni, (gli esperti prevedono tra una ventina di anni), ci sorprenderemo all’improvviso che non avremo più abbastanza risorse dal mare e invocheremo un nuovo stato di calamità. E nuovi sussidi.
Una numerosa popolazione di polpi sarebbe stata anche quella un buon rimedio contro il granchio blu, perche’ i polpi sono ghiotti di granchi, ma di polpi ne sono rimasti pochi perche’ noi italiani pretendiamo di mangiarli tutto l’anno e in tutta la penisola e il polpo di casa nostra, come specie, è davvero sfiancato.
Certo, ci rimarrebbero gli uccelli, anche loro potrebbero ridimensionare la popolazione di granchi blu, ma chi glielo fa fare a un gabbiano di affrontare chele robuste che possono staccargli un becco quando nelle grandi città si ritrova i sacchi della spazzatura da tutte le parti?
E così, senza predatori naturali, oggi ci resta puntare su padella, aglio e rosmarino. Ah, dimenticavo, e sui sussidi.
D’altronde i sussidi in mare sembrano essere la soluzione a molti problemi. Senza questi aiuti (che vengono dalle nostre tasse), si fermerebbe il 90% della pesca italiana che così dimostra di essere un’attività malata: perche’ un sistema che sopravvive solo grazie ai sussidi pubblici non può essere definito un settore economico sano, al massimo è un serbatoio di voti.
La lezione che ci danno questi granchi blu é ricordarci che il mare è un sistema delicato e complesso, un sistema che quando capisci che non sei in grado di riparare, non lo devi rompere.
Cosa fare ora? I politici dovrebbero aumentare le riserve marine, ne servono almeno il 30%, invece sono solo il 5%, ma quelle vere anche meno perche’ nel 4% è consentita la pesca.
Noi invece dovremmo smettere di mangiare i super predatori del mare come squali (siamo i primi consumatori in Europa) e pesci spada. Gli squali, oltre a fare pochissimi figli, sono preziosi per la salute del mare. Un pescecane è più utile di un cane perché regola le popolazioni di specie in eccesso.
La pesca va ripensata. Se ben gestita, può garantire proteine e benessere per le future generazioni, ma così come è oggi, già non funziona piu’ e non ha futuro.
E dimentichiamoci frasi a effetto come “pesce proveniente da pesca sostenibile”. La pesca su larga scala sostenibile non esiste. Quando si usa il termine sostenibile è solo marketing. Sostenibile vorrebbe dire mangiare solo i dividendi e non mangiarsi il capitale. Ma noi il capitale ce lo siamo già mangiato e ora stiamo pure addebitando il conto corrente ecologico dei nostri figli.
Due studi sulle alternative ecocompatibili rivelano che i prodotti che hanno soppiantato le plastiche monouso contengono in realtà sostanze chimiche di lunga durata e potenzialmente tossiche
AGI - Quando consumiamo un caffè o una bibita con bicchieri e cannucce di carta crediamo di fare la nostra parte per salvaguardare il pianeta. Ma due nuovi studi ci dicono il contrario; e cioè che queste alternative "ecocompatibili" contengono in realtà sostanze chimiche di lunga durata e potenzialmente tossiche. Il primo studio riguarda una grande analisi di ricercatori del Belgio che hanno testato 39 marche di cannucce alla ricerca di un gruppo di sostanze chimiche sintetiche note come sostanze poli e perfluoroalchiliche (PFAS).
Il gruppo di ricerca ha acquistato 39 diverse marche di cannucce realizzate con cinque materiali: carta, bambù, vetro, acciaio inossidabile e plastica. Le cannucce, acquistate principalmente da negozi, supermercati e fast-food, sono state poi sottoposte a due cicli di test per la presenza di PFAS. Dalla ricerca emerge che i PFAS sono stati trovati nella maggior parte delle cannucce testate ed erano più comuni in quelle realizzate in carta e bambù.
I prodotti chimici di sintesi vengono utilizzati per realizzare prodotti di uso quotidiano, dall'abbigliamento outdoor alle padelle antiaderenti, resistenti all'acqua, al calore e alle macchie. Sono, tuttavia, potenzialmente dannosi per le persone, la fauna selvatica e l'ambiente.
Le sostanze si decompongono molto lentamente nel tempo e possono persistere per migliaia di anni nell'ambiente, una proprietà che le ha portate a essere conosciute come "sostanze chimiche per sempre". Sono stati collegati a una serie di problemi di salute, tra cui una minore risposta ai vaccini, un basso peso alla nascita, malattie della tiroide, aumento dei livelli di colesterolo, danni al fegato, cancro ai reni e cancro ai testicoli.
L'analisi ha rivelato che la maggior parte dei marchi - il 69% - conteneva PFAS, con 18 diversi PFAS rilevati in totale. Il PFAS più comunemente presente, l'acido perfluoroottanoico (PFOA), è stato vietato a livello globale dal 2020. Sono stati rilevati anche acido trifluoroacetico (TFA) e acido trifluorometansolfonico (TFMS) - PFAS a "catena ultra corta" che sono altamente solubili in acqua e quindi potrebbero filtrare dalle cannucce nelle bevande.
Le concentrazioni di PFAS erano basse e, poiché la maggior parte delle persone tende a utilizzare le cannucce solo occasionalmente, rappresentano un rischio limitato per la salute umana. Tuttavia, i PFAS possono rimanere nell'organismo per molti anni e le concentrazioni possono accumularsi nel tempo. Gli autori hanno consigliato alle persone di utilizzare cannucce di acciaio inossidabile o di evitare del tutto l'uso di cannucce.
"Le cannucce realizzate con materiali di origine vegetale, come carta e bambù, sono spesso pubblicizzate come più sostenibili ed ecologiche di quelle realizzate in plastica", ha affermato il ricercatore Thimo Groffen, scienziato ambientale presso l'Università di Anversa, che è stato coinvolti nello studio.
Il secondo studio, pubblicato su Environmental Pollution, proviene dall'Università di Gothenburg in Svezia e ha testato le tazzine di carta comunemente usate per caffè e altre bevande. I ricercatori hanno scoperto che la carta abbandonata nell'ambiente può causare danni simili alla plastica, dato che contiene anch'essa sostanze chimiche tossiche. Lo studio svedese testa gli effetti di coppette monouso realizzate con diversi materiali sulle larve della zanzara farfalla.
"Abbiamo lasciato tazzine di carta e di plastica nel sedimento umido e nell'acqua per alcune settimane e abbiamo monitorato come le sostanze chimiche rilasciate abbiano influenzato la crescita delle larve. Tutte le tazze hanno avuto un impatto negativo sulla crescita delle larve di zanzara", afferma Bethanie Carney Almroth, Professoressa di Scienze Ambientali presso il Dipartimento di Biologia e Scienze Ambientali dell'Università di Gothenburg.
La carta utilizzata per il confezionamento alimentare deve essere trattata con uno strato superficiale di plastica. Questa plastica è spesso realizzata in polilattide, PLA, un tipo di bioplastica. Le bioplastiche vengono prodotte da risorse rinnovabili (il PLA è comunemente prodotto da mais, manioca o canna da zucchero) anziché da combustibili fossili, come avviene per il 99% delle plastiche attualmente in commercio.
Il PLA è spesso considerato biodegradabile, il che significa che può degradarsi più velocemente delle plastiche a base di petrolio nelle giuste condizioni, ma lo studio dei ricercatori mostra che può comunque essere tossico. "Le bioplastiche non si degradano efficacemente quando finiscono nell'ambiente, nell'acqua.
Potrebbe esserci il rischio che la plastica rimanga in natura e che le microplastiche risultanti vengano ingerite dagli animali e dagli esseri umani, proprio come avviene con le altre plastiche. Le bioplastiche contengono almeno tante sostanze chimiche quanto le plastiche convenzionali", spiega Bethanie Carney Almroth. "Alcune sostanze chimiche nelle plastiche sono note per essere tossiche, mentre altre mancano di studi a riguardo. Anche gli imballaggi di carta rappresentano un potenziale rischio per la salute rispetto ad altri materiali, ed è un fenomeno in aumento. Siamo esposti alle plastiche e alle sostanze chimiche a esse associate attraverso il contatto con il cibo".
L'autore dello studio svedese Bethanie Carney Almroth discute delle importanti modifiche necessarie per attenuare i danni continui all'ambiente e le minacce alla nostra salute causate dalla crisi dell'inquinamento da plastica: "Quando i prodotti monouso sono arrivati sul mercato dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono state condotte grandi campagne per insegnare alle persone a gettare i prodotti - dice il ricercatore -. Ora dobbiamo tornare indietro e abbandonare gli stili di vita monouso. È meglio se porti con te la tua tazza quando compri il caffè da asporto. Oppure prenditi qualche minuto, siediti e bevi il caffè da una tazza di porcellana".
Attualmente, presso l'ONU è in corso un lavoro in cui i paesi del mondo stanno negoziando un accordo vincolante per porre fine alla diffusione della plastica nella società e nella natura. LapProfessoressa Carney Almroth fa parte di un consiglio di scienziati, SCEPT - Scientists Coalition for an Effective Plastics Treaty, che fornisce prove scientifiche alle negoziazioni. Il consiglio chiede un rapido smantellamento delle plastiche superflue e problematiche, oltre a vigilare per evitare di sostituire un prodotto dannoso con un altro altrettanto pericoloso per l'ambiente.